«Quando eravamo studenti», mi racconta Ludmila Alexandrovna – ti ricordi come abbiamo vissuto, non avevamo neppure il tempo per preparar da mangiare. Allora a ventidue anni avevo già un ulcera аllo stomaco.
Ai tempi sovietici in caso di malattie gravi ti trattenevano a lungo in ospedale. Dovetti stare lì un mese.
La mia mamma veniva a trovarmi dopo il lavoro. Una sera sedevamo in corridoio parlando. Passò vicino uno dei ricoverati del nostro reparto, alto e bello, con i capelli un po’ brizzolati, ma lo stesso attraente. La mia mamma lo accompagnò con lo sguardo e mi disse:
– Ma non è quelli Petr Andreevich Kartascov? Lui era direttore della miniera
E mi racconta, che una volta lavoravano nella stessa struttura amministrativa. Da giovane lui era un gigante, per pranzo mangiava venti cinque polpette e beveva una bottiglia di cognac. Gli portavano da mangiare cinquanta ravioli Era come Ercole, tutte le donne e le ragazze lo guardavano.
Sembra che sia lui, però sono passati più di vent’anni…
– Domandagli, figliola, come si chiama, – dice la mamma
Per la cena tutti i malati che erano in grado di camminare, si radunavano vicino ad un grande tavolo. Io stavo seduta a capotavola, tutti i posti erano occupati, solo uno, all’altro capo della tavola era libero. Quell’uomo entra in sala da pranzo. Lo chiamano:
– Accomodati, Petr Andreevich!
Lui si siede e comincia mangiare. Io alzo la testa e gli domando:
– Allora, vi chiamate Petr Andreevich?
Lui alza lo sguardo verso di me, impallidisce, si offusca in volto. si allontana dal piatto, copre il viso con le mani e mi dice:
– Allontanati, maligna!
Si alza e se ne va. Alla sera domando ai miei compagni della camera, che significa «maligna»? Loro erano più grandi di me. Mi spiegarono che in questo caso non significava niente di male e così mi tranquillizarono.
Nei giorni successivi non lo vidi più..
Poi ci incontrammo all’ora del tramonto. Tutti i ricoverati sedevano sulle panchine in giardino intorno all’edificio del reparto. Cammino per la stradina e lo incontro. Appena ci avviciniamo, mi prende in braccio e mi porta verso la panchina dove erano seduti altri suoi compagni. Mi mette in piedi davanti a questa panchina e dice:
«Sono un vecchio, però ho appena incontrato il mio amore», poi mi lasciò andare via.
Da allora ogni mattina sul tavolino accanto al mio letto cominciarono ad apparire dei fiori. Ogni giorno un nuovo mazzo. Chi lo avrà messo? Lo domando ai compagni di camera, ma mi dicono che non lo sanno.
Ti ricordi, come era rigido l’orario in quell’ epoca negli ospedali? C» era «l’ora di silenzio» dopo il pranzo. Non era permesso uscire dalla camera in quell’ora di riposo. A me non veniva proprio sonno nel pomeriggio. Metto i bigodini, pensai. Apro il comodino: non ci sono. I vicini mi dicono: forse te li ha presi la tua amica dell’ altra camera?
Io silenziosa quatto quatto vado lungo il corridoio, vicino alla camera dei medici, piena di paura d’incontrare il dottore. Devo girare l’angolo e batto la testa proprio su petto di …Petr Andreevich.
Mi sento spaventata, lui è emozionato. Parla con me.
– Come ti chiami? Ludmila? Quanti anni hai? Ventidue? Si, mi ricordo… era in Barnaul. Esatto: ventidue anni fa. Senti, ci vediamo stasera, ti va? Devo dirti qualcosa di molto importante.
Ci siamo incontrati di sera. Lui mi raccontò:
– Era in Barnaul. Studiavo al politecnico dell’università. Nella camera presso la casa dello studente eravamo alcuni amici. Sta arrivando la sera, i giovanotti si preparano per gli incontri: uno chiede la cravatta, un altro la giacca. Baccano.
Io li ho accontentati tutti, non vedevo l’ ora che andassero via dalla Casa dello Studente. Finalmente se ne andarono via.
Mi sono sdraiato sul letto. Non andavo con nessuno, nonostante che tutti fossero convinti che avessi un sacco di ragazze. In realtà non mi interessavano queste cose. Sto a letto, penso. Bello, tranquillo. Chiudo gli occhi…
Improvvisamente la porta di nuovo cigola. Mi sono arrabbiato: di nuovo qualcheduno dei ragazzi! Eh, no! Una fanciulla entra in camera. E» uguale a te; l’altezza, gli occhi, i capelli sciolti, come i tuoi. Aveva un vestito rosso a pois. Dimmi: hai avuto il vestito rosso a pois?
– Sì, l’ho avuto. Mi piaceva tantissimo, ma poi l’ho danneggiato e mi è dispiaciuto molto.
– Si siede questa ragazza sul’angolino del letto e mi dice con la tua voce… Ti ricordi quando mi hai parlato per prima volta nella sala da pranzo? Mi sono perfino spaventato.
– Sì. Siete scappato quella volta.
– Aveva la voce uguale alla tua. E mi dice: «perchè non sei andato con gli amici?» Io dico: «Non ho una ragazza». Lei: «Giusto. L’amore tuo oggi è appena nato». Successe questo, mi ricordo bene, il 31 marzo ventidue anni fa.
– Quando lui ha pronunciato questa data, mi dice Ludmila Alexandrovna, – ho sentito la pelle d’oca. Questo era il giorno della mia nascita.
Ci siamo incontrati ancora qualche volta. Lui mi ha detto che è sposato già da vent’anni. Ha preso per pietà una donna che è madre di un bambino. Hanno un altro figlio, la moglie è buona, lo ama.
Mi ha chiesto di permettergli di toccare il mio corpo. Ho permesso. Tutto: seno e… tutto. Ha accarezzato tutto il mio corpo. Ma non si è permesso di più.
E mi dice:
– Non sapevo che significa amare una donna. Non immaginavo, che lei ha il suo profumo, che i suoi capelli profumano. Sai di che cosa sanno i tuoi capelli? Della steppa, come i miei. E il tuo corpo? Come la mela marinata.
Ci siamo incontrati ancora qualche volta. Prima che lo lasciassero andar via dall’ ospedale mi disse:
– I giorni miei ormai sono contati. Tu lo sai, probabilmente. Mi hanno proposto di fare l’intervento a Truscavets: io quella volta non volevo. Adesso, dopo averti incontrato, ho deciso di farlo. Vado in sala operatoria con la speranza di vivere ancora.
Ci scambiammo le lettere, quando lui era a Truscavez. Ricordi quegli anni? La differenza di età e della la sua posizione sociale era un ostacolo. Lui ha inventato il codice che sapevo usare solo io.
L’ultima sua lettera finiva con le parole: « L’amore mio ti supplica: sii felice!»
Traduzione Alfredo Bertollo